venerdì 27 novembre 2009

Summertime



Altri tempi.Tempi in cui certe voci, strappate come radici alle querce secolari, sembrano un'eresia per chi come me non ha il dono del canto. Mi immagino Jackson Pollock nel suo studio a Springs, NY quando usava "l'action" , il colore che gli usciva dal ventre per dipingere enormi e non classificabili quadri. Erano onde, onde di acrilico,waves nel pavimento dove rotolarsi per poter lavorare sui quattro lati del corpo e dello spazio. Ho visto il suo atelier nel 1999, in un pomeriggio di pioggia, quando il jazz mi perforava i timpani e mi usciva dalla pelle, dopo che avevo camminato per ore in cerca di quella sperduta palaffitta. Avevo con me uno zaino, un ombrello, la moleskine, una nikon e le biglie colorate che ancora porto nelle tasche. Avevo poco più di 20 anni e rimasi folgorata da quel "di dentro", quel modo di essere, di vivere ai margini per esistere, in uno spazio senza confini:lo spazio della mente. E ancora oggi mi sento mancare quando percepisco che certe persone arruffano fino ad arrivare a far la polvere alla credenza dell'ipotalamo (altrui). Ecco perchè quando sento Janis in questa versione, mi viene in mente la palafitta di Pollock e le assonanze che si fanno portatrici di energia. Su quel selciato, che ricordo perfettamente, in quel luogo più vicino al nessun luogo, dove il neon che proveniva dal bar più vicino era più spento di quello di una cantina, mi sono sentita ad un passo dalla "prima" libertà. E mentre mi chiedevo dove diavolo ero finita, ho finalmente visto la gente ruvida - che è discesa dalle navi - al bancone di un bar, con il Ballantines in mano.