sabato 9 maggio 2009

Di papaye e altri «vati»



In uno di questi giorni, quando il sole era in cielo e io alla guida della mia car car «scassata» (lo sarebbe anche se fosse un bolide da 300 cavalli), ho incontrato Charles Bukowsky. Non è uno scherzo e nemmeno un'allucinazione, ma un miracolo terreno: un uomo sulla sessantina identico a Charles camminava su un insulso marciapiede di Verona con in mano una papaya verde. Aveva un'incoltissima e fluente barba da ex impiegatuccio vendicativo ormai in pensione; i calzini bianchi del giorno prima lavati a mano con quel che è rimasto del sapone di marsiglia; la chioma fluente e grigiastra da figlio di puttana con il sorrisino sinistro. Mi sono fermata, ho messo le 4 frecce improvvisamente, mi sono tolta le havaianas bianche - volevo avere i piedi liberi per una simile visione - e l'ho seguito a 5 km orari per demolire completamente ogni termine specifico della psichiatria: educazione, approccio, metodologia, cura della mente, pedagogia. Simili libertà vanno vissute senza confondere la libertà. A prima vista, io e il sosia di Hank, eravamo due vecchi cani che se la intendevano su ogni cosa e se ci fossimo seduti ad un tavolo di un bar avremmo ordinato due scotch senz'acqua, per il gusto di sentirci stupidi quando il sole è ubriaco - d'amore - alle 11.11 del mattino.

Linda Lee, l'unica donna con la fede e «senza fede nuziale». Per capire tutto c'è una fotografia di Micheal Montfort che racconta Buk e Linda, mentre camminano indisturbati per le strade di Schweteingen, con una coperta di lana che li avvolge dalla testa ai piedi.